Esilio e redenzione dell'anima – Galut e Gheulà

04/04/2011 Off di Miriam Oryah

 

Rabbi Avraham Sutton

Leggiamo nella Torah che Sarah venne imprigionata nel palazzo del Faraone (Genesi 12:15) e dopo nel palazzo-harem di Avimelekh (Genesi 20:2). Successivamente l’intero popolo ebraico fu tenuto prigioniero e schiavizzato in Egitto per duecentodieci anni.[1] Fummo poi esiliati in Babilonia e in Persia per settant’anni. Quando eravamo sul punto di perdere ogni speranza nella nostra liberazione, Esther fu improvvisamente fatta prigioniera e costretta a vivere con il re Assuero/Achashverosh nel suo palazzo.

Anche il ritorno nella nostra terra dopo gli eventi di Purim fu offuscato dal dover vivere sotto il dominio persiano e dopo quello greco.
 
Fummo poi esiliati e dispersi ai quattro angoli della terra dall’impero romano. A tutt’oggi siamo ancora in esilio. Nonostante il nostro parziale ritorno nella terra d’Israele nel ventesimo secolo possa essere considerato un passo di importanza cruciale nel dipanarsi del dramma messianico, la mano di Dio è ancora terribilmente nascosta. La situazione politica in Medio Oriente oggi è estremamente volatile. Il popolo d’Israele in questo stesso momento è ancora in grande pericolo, per via di forze interne ed esterne.

E anche se siamo nel periodo storico chiamato ikvot meshicha (le tracce o i talloni dell’età premessianica), che segna la fine del dramma storico, i momenti finali dell’esilio implicano una battaglia spirituale che rischia di portare Israele fino al punto di rottura. Tutti questi eventi storici, che affondano le loro radici al tempo dei patriarchi e delle matriarche del popolo ebraico, e conducono ai nostri giorni, sono dunque parte di una lunga storia chiamata esilio e redenzione (galut e geulà, in ebraico).
 
Ad un livello interiore, questi esili corrispondono alla discesa dell’anima in un corpo e una personalità fisici incapaci di apprezzarne la sua santità grandiosa. Essi corrispondono alla discesa della Shekhinah (Presenza Divina) nell’esilio e occultamento di un mondo, non soltanto inaccessibile alla santità, ma che si oppone strenuamente ad essa ed è inflessibile nell’usarla e cooptarla per i suoi scopi perversi.
 
Questo lo riscontriamo nel Sefer haZohar e nel Baal Shem Tov. Leggiamo nella Torah: “Hashem disse ad Avram/Abramo: Vai a te stesso; [parti] dalla tua terra, dalla casa di tuo padre, dal tuo luogo natale, [e vai] nella terra che ti mostrerò. Ti farò diventare una grande nazione; Ti benedirò e ti farò grande; diventerai una benedizione. Io benedirò coloro che ti benedicono e quelli che ti malediranno, Io li maledirò; tutte le famiglie della terra saranno benedette tuo tramite” (Genesi 12:1-3).
 
Lo Zohar identifica l’Avram/Abramo di questi versetti con l’anima (Zohar Chadash, Midrash Neelam, parashat Lekh Lekha, pp. 24a-b. Zohar Sitrey Torah, 1:76b-77a.):
 
“Quando il Santo manda via la neshamah (anima) dal suo luogo trascendentale, Egli la benedice prima con sette benedizioni [corrispondenti alle sette benedizioni nuziali con i quali uno sposo e una sposa ebrei vengono benedetti sotto il baldacchino nuziale]. Questo è il significato di “Hashem disse ad Avram… 1) Ti farò diventare una grande nazione; 2) Ti benedirò e 3) Ti farò grande; 4) Diventerai una benedizione; 5) Io benedirò coloro che ti benediranno e 6) Maledirò coloro che ti malediranno; 7) Tutte le famiglie della terra saranno benedette tuo tramite.” “Avram,” questa è la neshamah/l’anima, che è come un av (padre) che insegna al corpo; essa è chiamata ram (esaltata) perchè proviene da un luogo alto e sublime.
 
Queste benedizioni vengono impartite all’anima quando viene costretta a lasciare il cielo per scendere nel mondo fisico. Le benedizioni sono intese chiaramente proteggere l’anima, aiutandola a ricordare e a rimanere all’altezza della sua missione: la santificazione del corpo. Il Sefer haZohar ci informa anche qui, al livello più profondo, che l’anima si meriterà queste benedizioni solo attraverso il suo scendere dal cielo per sposare il corpo.
 
L’anima, nel suo essere precisamente un av ram (un custode spirituale) per il corpo, realizza il suo potenziale avvicinandosi molto di più intimamente ad Hashem, che se fosse rimasta in cielo per milioni di eternità. Basandosi sul Sefer haZohar, il Baal Shem Tov insegnò (Keter Shem Tov §26-27):
 
“Vai a te stessa; [parti] dalla tua terra,” discendi dal mondo di Atzilut a quello di Beriah. “Dal tuo luogo natale,” ovvero da Beriah al mondo di Yetzirah. “Dalla casa di tuo padre alla terra che Io ti mostrerò,” cioè da Yetzirah al mondo di Asiyah. In Asiyah (la dimensione fisica), l’anima vede un mondo nel quale la gente si è completamente dimenticata di Dio. Questo è il soignificato di: “C’era una carestia nella terra” (Genesi 12:20); l’anima vede che la maggior parte della gente muore spiritualmente di fame. “E così Avram [l’anima] discende in Egitto/Mitzrayim,” cioè l’anima è metzar (addolorata e rattristata) dal fatto che la gente sminuisce l’onore di Dio. Tuttavia, “Ma Avram ascese da Mitzrayim” (Genesi 13:1), perchè è precisamente attraverso questo [cioè la sperimentazione dell’assoluto contrasto tra le sue origini superne e la bassezza di questo mondo] che l’anima raggiunge un’altezza persino maggiore [che se fosse rimasta in cielo]. [Dopo la discesa e avendo visto questo contrasto] ha ora un piacere ancor maggiore nel servire il suo Creatore. Questo è il vero vantaggio della luce sulla tenebre.
 
Il Baal Shem Tov dunque identifica l’Avram di questi versetti come un nome in codice per l’anima divina costretta a lascire il suo luogo in cielo per discendere in un mondo in cui il Cielo è completamente nascosto. Soltanto lì l’anima può “andare a se stessa,” cioè realizzare il suo potenziale. L’unico problema è che potrebbe inizialmente cadere in uno stato di amnesia, in cui si dimentica temporaneamente il suo Sè superiore, chi essa sia veramente. Ma precisamente in tale stato di esilio sarà costretta ad attingere alle sue profonde riserve di santità, trasformando profondamente non soltanto il suo veicolo fisico, cioè il corpo, ma il mondo intero circostante, in uno stage per la rivelazione della presenza di Hashem.
 
Esilio è il buio che l’anima deve sopportare per diventare come Dio, per creare la luce dalle tenebre. Paradossalmente, il corpo stesso è il modo più perfetto per risvegliarsi alla santità. In un primo momento il corpo e il mondo fisico generalmente ci impediscono di realizzare il nostro potenziale. Soltanto quando cominciamo a capire che il corpo è il nostro mishkan (santuario), lo strumento più perfetto attraverso cui percepire la santità (Giobbe 19:26: “Dalla mia carne vedrò Dio”.), avviene una rivoluzione interiore. Nel frattempo, l’anima d’Israel— e la Presenza Divina stessa — diventano la forza vitale per intere civiltà la cui esistenza è antitetica alla santità. Queste civiltà – tradizionalmente note come gli esili egiziano, babilonese, persiano, greco e romano[2] – tengono l’anima divina prigioniera, cooptando il suo potere per governare i loro rispettivi sistemi.
 
Mentre essi sono impegnati a succhiare il loro nutrimento energetico dal divino, tuttavia, Dio in cielo ha altre cose per la mente. Lentamente, ma inesorabilmente, quella stessa anima divina trasformerà civiltà e il mondo intero. Al fine di mantenere il libero arbitrio, questo processo non deve essere palese. L’esilio deve sembrare completamente e assolutamente privo di speranza. Le nazioni del mondo devono credere che Israele sia stata completamente abbandonata. Anche Israel deve restare al buio, sperimentando quel desiderio intenso che può esistere solo in uno stato di separazione dall’Amato. Ciò nonostante, alla fine, l’esilio – l’esilio della Shekhinah, l’esilio delle anime di Israel nel loro soggiorno in questo mondo, l’esilio di ogni anima nelle sue diverse incarnazioni – verrà visto come un programma segreto per la redenzione.

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[1]Fu proprio in quel periodo che l’Egitto raggiunse l’epitome di impero mondiale. L’unico motivo per cui gli egiziani voltarono le spalle alla famiglia di Yosef/Giuseppe (attraverso i cui saggi sforzi furono salvati dalla morte per fame) fu perchè gli Israeliti stessi si assimilarono alla cultura egiziana. Invece di trasformare la società egiziana, si innamorarono di essa. Essi perciò rappresentano l’allontanarsi dal Dio Unico per idolatrare i molteplici dei egiziani.
 
Adorare questi poteri significa che l’intrinseca santità di Israele viene usata per nutrire le forze del male, che prosperano parassiticamente su qualsiasi energia sono in grado di rubare al lato della santità. Il solo modo per salvare le anime d’Israel, a quel punto, fu di mettere il Faraone e gli egiziani contro di loro. Quello che ne conseguì è storia: gli egiziani riuscirono ad opprimere Israel per un po’ ma in questo modo riuscirono solo ad affrettare la loro stessa fine. Alla fine furono puniti con dieci piaghe e Israel partì dall’Egitto con tutta la ricchezza dell’Egitto. L’Egitto divenne il primo di molti imperi che salirono ai vertici del potere per poi cadere nel completo oblio. Ancora una volta, questo scenario negativo (che divenne il prototipo di tutti i futuri esili del popolo ebraico), non avrebbe avuto bisogno di finire in questo modo. Se in un qualunque momento, le anime d’Israel fossero riuscite ad illuminare il mondo con la luce della santità, l’umanità sicuramente non avrebbe avuto nulla da perdere.
 
[2]L’esilio romano, quello più lungo e finale, che dura ormai da duemila anni, riguarda secondo la tradizione ebraica il mondo occidentale.
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